"Nabucco": note di regia
foto: Priamo Tolu
Nabucco
note di regia a cura di Leo Muscato
È ormai inconfutabile il fatto che la trama di Nabucco sia quasi irraccontabile. Nonostante sia una fra le opere più rappresentate, in realtà pochi conoscono la storia. Cambia secondo il punto di vista di ciascun personaggio: potrebbe essere la storia di un conquistatore che a un certo punto si sente Dio, e per questo viene punito; oppure la storia di una principessa che scopre di essere, in realtà, figlia di schiavi e ha sete di potere; o la storia di una giovane donna rapita e tenuta in ostaggio da un uomo che ama, un uomo che per salvare lei, tradisce l'intero suo popolo; o quella di un Pontefice in crisi che in un momento di difficoltà così grande, vede la sua fede vacillare.
Per la gente è sicuramente l'opera di Va' pensiero, il coro diventato una specie di monumento nazionale grazie al suo legame con il Risorgimento e al desiderio di ribellione verso ogni forma di oppressione. Un coro che lamenta la perdita della propria patria, che dà voce a un popolo oppresso, deportato e ridotto in schiavitù. Ed è esattamente da quest'ultima immagine che siamo partiti per orientarci nella narrazione di questa storia. All'apertura del sipario, un gruppo di ebrei è asserragliato in un bunker all'interno del loro tempio, mentre fuori, l'esercito Babilonese, comandato da Nabucco, sta mettendo a ferro e a fuoco la città di Gerusalemme. A un certo punto gli invasori riescono a entrare anche nel tempio, uccidere gli ultimi ebrei e incatenare quelli che non possono più difendersi.
Quando il sipario si apre sulla seconda parte, è trascorso un po' di tempo. Quello necessario perché un popolo ridotto in schiavitù possa fare un migliaio di chilometri a piedi nel deserto, e arrivare in Babilonia, situata, all'epoca, vicino all'attuale Baghdad. Gli ebrei che vediamo qui sono i pochi sopravvissuti a quel viaggio: lacerati nel corpo, nello spirito e nelle vesti. Anche la fede è stata minata, e nemmeno il loro Pontefice riesce a confortarli.
Da subito ci è stato chiaro che per raccontare questa storia dovevamo portare il visivo a un'essenza. Era necessario trovare una cifra estetica che consentisse un'astrazione da qualunque proposito di fedeltà storica, e che allo stesso tempo fosse una sintesi sufficiente a caratterizzare la differenza fra un popolo conquistatore e un altro costretto ai lavori forzati.
Siamo andati alla ricerca d'immagini che ritraessero le guerre degli ultimi cinquant'anni in Medioriente e abbiamo fatto una delle tante scoperte dell'acqua calda che ogni tanto in teatro ci riconducono allo stupore dei bambini: le forme di molti abiti tradizionali di quelle terre, conservano ancora oggi lo stesso carattere che avevano 2500 anni fa. A un certo punto ci è stato chiaro che sarebbe bastato scegliere soltanto il tipo di armi di cui dotare i babilonesi, per connotare temporalmente l'azione. Con dei fucili e dei kalashnikov avremmo dato al tutto un sapore più contemporaneo. Abbiamo optato per archi, frecce, spade e corazze, per rimanere più fedeli alla distanza temporale indicata nel libretto. Ma non abbiamo rinunciato a un sapore più vicino ai nostri tempi nella qualità di relazione e comportamento fra i personaggi.
Ogni monumentalità decorativa è stata bandita: lo spazio è una grande scatola che ci permette di raccontare, a seconda delle esigenze, due mondi molto diversi l'uno dall'altro. Quello degli ebrei è decisamente scuro, rischiarato dal fuoco, segno del divino. Quello Babilonese, invece, ostenta ricchezza, ma lo fa in maniera spartana, con dei muri che trasudano oro, e che si caratterizzano per certe durezze esaltate dagli angoli retti che li compongono.
L'opera non è divisa in atti, ma in "parti"; ciascuna ha una titolo ed è accompagnata da una citazione tratta dal Vecchio Testamento. Ogni avvenimento è condensato nell'arco di pochi attimi e per questo molte scene hanno un carattere statico, in alcuni casi dei veri e propri tableaux. Noi abbiamo fatto di tutto per dare allo spettacolo un sapore più cinematografico conferendo all'azione un ritmo serrato, e una recitazione quanto più vicina possibile alle qualità relazionali che la gente ha nella vita reale. Il coro stesso non è concepito come una massa, ma come un insieme di uomini e donne l'uno diverso dall'altro, legati da una sorte comune.
Siamo insomma partiti dall'interno per arrivare all'esterno. Abbiamo analizzato i comportamenti umani e li abbiamo trasformati prima in azione e poi in immagine. E adesso abbiamo fiducia che tutto questo si trasformi in emozione.