Stagione lirica e di balletto 2017

(foto di Priamo Tolu)

"Turandot nella città di pietra" 
a colloquio con Pinuccio Sciola

C’è un patto tra Pinuccio Sciola e le pietre di Sardegna, tanto è vero che assomigliano l’uno alle altre come due gocce d’acqua. Deve essere la ragione per cui le pietre si lasciano fare di tutto da lui: tagliare, perforare, frammentare. Riesce persino a farle suonare.
(Renzo Piano)

Materia e sogno, monumentalià e leggerezza, scultura e musica. Pinuccio Sciola, in questa sua Turandot tutto sembra ruotare attorno al contrasto tra elementi immateriali come il canto, il mimo, le videoproiezioni e le architetture imponenti delle sue creazioni di pietra…

Per secoli è passata l’idea che la pietra sia una materia dura, rigida, carica di negatività, muta, inespressiva. E infatti - se la percuoto - quello che sento è solo il suono del colpo che riceve la pietra, non riesco a far suonare quello che c’è dentro. Invece la pietra ha un’anima, una memoria che custodisce la storia dell’umanità. Il primo paragrafo della Genesi ci dice che «prima fu il suono dell’Universo». Evidentemente quei suoni, quella memoria, quel codice genetico, si sono depositati dentro la pietra, che li custodisce come uno scrigno. Agli scettici ricordo solo che tutta l’informazione messa in circolo oggi dai computer e dalle reti digitali, in fondo, viene custodita ed elaborata attraverso infinitesimali cristalli di silicio.

Prendiamo una pietra comune, come per esempio il calcare. Se lo faccio vibrare con le mie mani, emette suoni liquidi: semplicemente perché il calcare, dal punto di vista geologico, non è altro che acqua fossilizzata. È come se la memoria della materia acqua, durante la glaciazione, sia rimasta imprigionata dentro questa roccia, e solo accarezzandola viene fuori il suono. Altrettanto succede con il basalto di origine vulcanica. Se io ‘suono’ e sollecito con le mie mani una delle mie sculture in basalto, mi rende la sua anima di fuoco e di terra. Non esisterà mai una pietra uguale all’altra, perché in ogni tipo di pietra e in ognuno dei quadratini che io ho inciso sulla sua superficie il suono si propaga in modo diverso e ci racconta una storia diversa. 

E in che modo queste voci nascoste, quasi segrete, possono raccontare la favola musicale di Turandot?

In questo caso le mie sculture danno vita a una vera e propria architettura al tempo stesso visiva, teatrale e musicale, una città sonora nella quale si svolgono le vicende di Turandot. Questa non è la mia prima esperienza di scenografia teatrale, anche se non mi ero mai cimentato nell’opera lirica. Lavorare per il Teatro Lirico di Cagliari è stata un’opportunità speciale, che mi rende particolarmente felice e orgoglioso. In realtà lo spazio dove lavoro, il mio laboratorio e il mio giardino a San Sperate, assomigliano molto a una scenografia. E le mie opere sono nate in mezzo alla scenografia della natura. La cosa davvero esaltante di questa esperienza è che nei laboratori del Teatro Lirico, grazie alle capacità straordinarie e all’esperienza delle persone che ci lavorano, siamo riusciti a ricostruire in dimensioni gigantesche e con materiali di scena diversi dalla pietra le mie sculture, che diventano così elementi architettonici di una città fantastica.

Con questa Turandot si esprime una forte impronta ancestrale della Sardegna, capace allo stesso tempo di reinterpretare una Pechino contemporanea, a tratti persino futuristica. Abbiamo provato a immaginare che le vicende si svolgano in luoghi lontani, ma allo stesso stempo straordinariamente vicini. Ecco… è come se il cuore della Principessa sia rimasto imprigionato, così come la musica, dentro la pietra. E solo grazie all’amore possa essere liberato. Proprio come capita quando faccio suonare le mie sculture accarezzandole. 

In questo caso le dimensioni della città pietrificata di Turandot non sono proprio a misura di carezza…

Durante la realizzazione delle scenografie, mi ha commosso vedere realizzate in scala gigantesca le mie sculture, che già di per sé non sono proprio piccole. In Turandot gli elementi architettonici delle mie città sonore arriveranno a sfiorare i quindici metri, l’altezza di un palazzo vero di cinque piani. È un’emozione fortissima, che voglio condividere con il pubblico. Per questo motivo, già all’esterno del Teatro e nel foyer, ho voluto installare alcuni elementi scenici imponenti, due grandi palazzi che, con la loro maestosità, facciano provare agli spettatori, ancor prima dell’inizio dell’opera, la sensazione di essere avvolti dalle architetture di pietra, diventando parte di un’esperienza sensoriale inaspettata e vibrante. Ho cercato di superare la convenzione scenica del palcoscenico, del rettangolo nero dentro il quale si svolge tutta la scena e si condensano gli elementi scenici e visivi dello spettacolo. Siccome il Teatro è parte integrante della città, e la città stessa è uno straordinario teatro naturale, ho immaginato che queste architetture fantastiche possano occupare e caratterizzare lo spazio urbano. 

Insomma, non si può dire che l’apporto di uno scultore prestato in questo caso alla lirica possa passare inosservato.

Spero che alla fine questa Turandot venga apprezzata soprattutto per lo straordinario lavoro corale che ha portato alla sua realizzazione. Devo dire che, sin dall’inizio, con il regista Pier Francesco Maestrini e con Marco Nateri che ha disegnaro i costumi c’è stata un’intesa perfetta, un bellissimo scambio di creatività e passione. Tutte le diverse fasi della messa in scena di questa Turandot sono state straordinarie, grazie al talento e alla professionalità delle persone che lavorano nei laboratori di scenografia del Teatro Lirico di Cagliari sotto la guida di Sabrina Cuccu. Si possono anche avere le migliori idee del mondo, ma se poi mancano le mani, le diverse competenze e le sensibilità delle persone che devono concretamente realizzarle, non si può arrivare a un risultato come questo. È ovvio che per il Teatro Lirico non è la prima volta, perché qui spettacoli di alto livello se ne creano continuamente e c’è uno standard qualitativo fuori dal comune. Ma mi piace pensare che quello che abbiamo realizzato insieme in questi mesi sia davvero qualcosa di unico. 

Il suono delle pietre è lo stesso della voce umana: il solo che esce direttamente dalla natura, naturalmente rendendoglielo possibile. La voce viene modulata dall’uomo, dalla donna; la pietra viene lavorata da Sciola per suonare. Non c’è però, in entrambi i casi, trasformazione del materiale, legno o metallo, nella forma sonante altrimenti inesistente, come per gli strumenti. Così il suono delle pietre di Sciola è direttamente parte del paesaggio sonoro, appunto come la voce.
(Luigi Pestalozza) 

 

intervista a cura di Sergio Benoni, realizzata in occasione dell’allestimento dell’opera nell’estate 2014 (per gentile concessione dell’autore)

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